Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie…
Nel 1858, l’Oratorio era ancor pieno del profumo di santità che vi aveva diffuso il quindicenne Domenico Savio, volato in paradiso l’anno prima. C’era un altro ragazzo che stava conquistando la stessa fama: Michele Magone. Michele era tutt’argento vivo; e l’affetto di don Bosco ne aveva fatto un angelo. Paolino Albera e Michele Magone finirono vicini di letto in camerata e divennero amici. Un’amicizia gioiosa e leale che durò poco. Michele morì a quattordici anni e Paolo Albera poté ascoltare commosso le parole che scambiò con don Bosco quando cadde malato: «Se il Signore ti offrisse la scelta o di guarire o di andare in paradiso, che sceglieresti? » chiese don Bosco. Magone rispose: «Chi sarebbe tanto matto da non scegliere il paradiso?»
La casa di don Bosco era la sua casa.
Vedendolo gravissimo, don Bosco gli disse: «Prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione». Magone rispose: «Dica pure, io farò quanto potrò per obbedirla». E don Bosco: «Quando sarai in paradiso e avrai veduto la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che nessuno di quelli che sono, o che la Divina Provvidenza manderà in questa casa, abbia a perdersi». I fatti dimostreranno che Michele Magone ha fatto la sua “commissione”. Con questo ricordo nel cuore e gli occhi sempre ben fissi su don Bosco, Paolo Albera, timido e riservato, ma più che mai risoluto divenne uno dei migliori. La casa di don Bosco era la sua casa.
Don Bosco educava amando
Più tardi descrisse così quel periodo benedetto: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace d’una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca, come quando si vuoi parlare senza pronunziar le parole; le parole stesse cadenzate in un modo piuttosto che in un altro; il portamento della persona e la sua andatura snella e spigliata: tutte queste cose operavano sui nostri cuori giovanili a mo’ di una calamita a cui non era possibile sottrarsi; e anche se l’avessimo potuto, non l’avremmo fatto per tutto l’oro del mondo, tanto si era felici di questo suo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale, senza studio né sforzo alcuno».
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